Capita ancora troppo spesso che le aziende (italiane?) siano scettiche nei confronti della ricerca con le persone. Quasi sia un’ammissione di ignoranza da parte loro, il fatto di non sapere cosa le persone vogliano, e quindi sia inutile o persino dannoso ascoltarle.
Eppure quasi tutte mettono in piedi delle strategie di raccolta di feedback (che è un dono prezioso, come ci racconta Raffaele). Quindi va bene ascoltarle dopo aver fruito del nostro servizio o prodotto, ma quando dobbiamo progettarlo no? Che differenza c’è?
Temo sia una questione culturale. Qualcosa su cui dobbiamo lavorare tanto, noi progettisti (e intendo, con progettisti, chiunque abbia a che fare con dei clienti per impostare una strategia o ideare un concept che si rivolga a delle persone). Dobbiamo riuscire a far comprendere il valore di questa fase iniziale del lavoro, preziosissima, ai nostri committenti.
L’errore di base è che le aziende credono che con la ricerca noi andiamo a chiedere alle persone cosa vogliono, cosa gli piacerebbe avere o fare. Una sorta di lista dei desideri. Noi invece domandiamo altro, perché ci interessa indagare la vita delle persone e riuscire a tirar fuori di cosa hanno bisogno. Non è una differenza semantica, ma sostanziale: con i desideri espressi ci facciamo poco, mentre l’ascolto di una storia può significare recepire un bisogno inespresso che possa poi guidare una progettazione mirata. Centrata sulle persone, appunto.
Perché questa convinzione diffusa che ascoltare le persone sia, diciamola tutta, fuffa? Qualche idea me la sono fatta, grazie anche a commenti ascoltati o riferiti:
Abbiamo intervistato oltre sessanta persone per capire come progettare la nostra nuova sede. Alla fine non abbiamo ottenuto nessuna linea guida.
Le aziende vengono da un’esperienza negativa pregressa con la ricerca. Qualche sedicente agenzia, persino grandi nomi della consulenza, gli ha fatto sborsare una vagonata di soldi in passato per poi produrre risultati inconcludenti o fallimentari.
Succede, purtroppo. Ne paghiamo il prezzo tutti noi, che facciamo questo lavoro con professionalità. Oggi in molti si improvvisano esperti di UX, di design thinking, di qualunque cosa sia l’hype del momento. Se è importante fare ricerca con le persone, lo è altrettanto , se non di più, farla con chi ne ha davvero le competenze e l’esperienza.
Non possiamo metterci nelle mani di uno studentello di 22 anni: siamo noi che sappiamo cosa è meglio per loro.
Questa io la chiamo la sindrome dell’onniscienza del manager di turno (condita con un po’ di gerontocrazia). Se sapete tutto, come mai chiedete il feedback ai vostri clienti, dopo? Per migliorare il vostro prodotto o servizio? Benissimo, allora allarghiamo l’ascolto alle altre fasi del progetto, così invece di modificarlo dopo il lancio o rilascio magari lo rendiamo più rispondente alle esigenze del nostro target dall’inizio, risparmiando soldi e tempo. Potremmo perfino intercettare delle aree inesplorate e -pensate!- riuscire a ideare un prodotto innovativo.
Ma non siete voi gli esperti? Proponeteci delle soluzioni, basandovi su delle best practices correnti, e non perdiamo tempo.
Come consulente, io non mi sento un’esperta di soluzioni: piuttosto, ho esperienza nel metodo con cui arrivo a formularle. Ai miei clienti dico spesso che io non ho le risposte alle loro domande, ma che insieme possiamo provare a trovarle. Spiego loro come intendo farlo e poi intraprendiamo un viaggio in cui entrambi ci immergiamo nella realtà delle persone per ricavarne ispirazione (o insight) che guidino le nostre scelte progettuali.
E no, le best practices da sole non bastano: possono essere un punto di riferimento, ma non sostituiranno mai il valore della conoscenza specifica sia delle persone a cui ci rivolgiamo, sia del contesto particolare in cui interagiscono con il nostro prodotto o servizio. E poi, non dicevate di volere qualcosa di innovativo? 😉