Volete ancora diventare degli UX designer?

Allora forse è tempo che io aggiorni questo vecchio post del 2012 in cui davo alcuni consigli agli aspiranti colleghi. Consigli che reputo ancora validissimi e che vi raccomando di leggere, ma che vanno spolverati e integrati.

Cos’è cambiato dal 2012 a oggi, in Italia, nel mondo della UX? Be’, un sacco di cose.

Se ne parla molto di più, forse anche troppo e a sproposito: ormai è una buzzword e si porta dietro tanto rumore di fondo. Sembra che chiunque si occupi di digitale, oggi, progetti naturalmente l’esperienza utente (UX, appunto), ma bisogna imparare a distinguere la realtà dalle apparenze, specialmente se si vuole lavorare in questo settore.

Per come la vedo io, la bellezza di questo lavoro sta nella sfida di progettare qualcosa che sia utile, piacevole e significativo per la vita delle persone. Magari che le aiuti persino a vivere meglio il quotidiano o dei momenti particolari della loro vita. Per me, questo si può fare solo se le persone vengono coinvolte nel corso della progettazione, ovvero se si adotta un approccio human-centered (centrato sugli umani!).

Ecco quindi che il nuovo consiglio che mi sento di darvi, se volete fare gli UX designer oggi, è trovare un modo per lavorare in realtà che adottino davvero questa pratica. Con un minimo di indagini e il coraggio di fare le domande giuste quando affrontate una selezione o una collaborazione, potrete capire con chi avete a che fare.

Un’altra cosa che è cambiata rispetto ad allora è che l’offerta formativa è cresciuta, per fortuna. Ci sono alcuni master disponibili: quello dello IULM su Architettura dell’Informazione e User Experience, ma anche il corso di User Experience Design del Politecnico o il master di Talent Garden a Milano. Ci sono varie realtà formative che offrono workshop di una o più giornate, orientati alla pratica, come UX University (dove saltuariamente insegno anche io), i corsi di Avanscoperta e molti altri.

Anche la community è maturata rispetto al 2012: esistevano pochi UX Book Club in Italia, ora si sono moltiplicati sul territorio e sono molto attivi! Ci sono anche i gruppi di Service Design Drinks, i local chapter di IXDA e altri meetup più o meno tematici. Cercate su Facebook o su LinkedIN quelli vicini a voi, e andate agli incontri! Oltre a confrontarsi con colleghi e altri apprendisti come voi, si può comprendere meglio la realtà di quel territorio, le possibilità professionali e le prospettive.
Unitevi anche alle discussioni su alcuni gruppi Facebook, per esempio quello di Usabilità e Architettura dell’Informazione e quello di Digital Strategy.

Infine, mi sento di consigliarvi di guardare un po’ oltre i confini del digitale: il mondo della progettazione di prodotti e servizi oggi ha abbracciato discipline vicine e innovazioni tecnologiche che stanno già causando cambiamenti nel nostro modo di interagire con le aziende che li producono. Mantenete sempre viva la curiosità verso la tecnologia e le persone, e fate che sia questa la vostra bussola!

In bocca al lupo 🙂

Che lingua parlano le icone?

Un’immagine vale più di mille parole. Giusto? Be’, dipende dall’immagine.

In un’ottica di risparmio di spazio, di ottimizzazione per il mobile e, magari, anche per seguire la moda o rendere più “carine” le pagine che progettiamo, spesso ricorriamo alle immagini per sostituire alcune parole.

Le icone sono tra le più usate, perché piccole, utili, spesso già disponibili e, soprattutto, perché sono risconoscibili da tutti. Ma è proprio vero? No, non lo è.

Aurora Bedford ci ricorda che le persone si basano sulla loro esperienza precedente per capire cosa si nasconda dietro a un’icona. E questo è ciò che ho fatto io oggi, sul sito di Dyson, convinta di aver compreso come fare un’azione.

Dyson ricambioEro alla ricerca di un pezzo di ricambio per il mio aspirapolvere: lo trovo tra quelli non più in produzione ma con diversi pezzi ancora disponibili. Arrivo alla pagina del pezzo che cercavo, leggo prezzi e consegna, e cerco il modo per poter condividere velocemente la pagina via mail per potermela spedire.

Dove pensate che vada?

Naturalmente sull’icona ‘condividi’ lassù, in alto a destra. Giusto?

Sbagliato. Guardate cosa si nasconde dietro quell’icona:

Condividi

Altre icone! Quelle dei social media, per la precisione. Ma….attenzione! Non servono a condividere questa pagina sui vostri social media, come vi aspettereste. Sono link alle pagine social di Dyson.

(Io qui ho un sospetto: che su questa funzionalità ci abbiano messo mano più persone. La prima che inserisce le icone social pensando che siano, appunto, per far condividere la pagina alle persone. La seconda, a cui qualcuno dice di inserire i link ai social Dyson, e li mette lì. Chissà!)

E secondo voi, a cosa serve l’icona con il globo?

Io non ne avevo idea. Istintivamente, ho pensato significasse sito web, o internet, ma non aveva senso visto che mi ci trovavo già. Cliccandoci, porta a questa pagina qui:

Seleziona Paese

Io non me l’aspettavo. Forse un’icona con la bandiera sarebbe stata più chiara, anche se non avrebbe risolto l’ambiguità tra lingua del sito e sito nazionale: come vedete ci sono siti nazionali in più lingue, tra le opzioni.

Le icone sono spesso problematiche perché persone diverse ci leggono concetti diversi. Basandosi su cosa hanno visto dietro ad icone simili (già, c’è anche la questione delle varianti!) si aspettano un certo contenuto o una funzionalità. E se non le trovano si sentiranno irritate, sperdute, e abbandoneranno l’intento che avevano e quindi il vostro sito.

Esistono pochi standard sulle icone, ma almeno quelli di base cerchiamo di rispettarli. Aggiungiamo delle piccole etichette per renderle ancora più chiare: non sarà cool, ma è utile. E poi testiamole: vediamole in azione, con le persone vere, e capiamo se fanno il loro dovere o se confondono anziché chiarire.

 

 

What users want or what users need?

Capita ancora troppo spesso che le aziende (italiane?) siano scettiche nei confronti della ricerca con le persone. Quasi sia un’ammissione di ignoranza da parte loro, il fatto di non sapere cosa le persone vogliano, e quindi sia inutile o persino dannoso ascoltarle.

Eppure quasi tutte mettono in piedi delle strategie di raccolta di feedback (che è un dono prezioso, come ci racconta Raffaele). Quindi va bene ascoltarle dopo aver fruito del nostro servizio o prodotto, ma quando dobbiamo progettarlo no? Che differenza c’è?

Temo sia una questione culturale. Qualcosa su cui dobbiamo lavorare tanto, noi progettisti (e intendo, con progettisti, chiunque abbia a che fare con dei clienti per impostare una strategia o ideare un concept che si rivolga a delle persone). Dobbiamo riuscire a far comprendere il valore di questa fase iniziale del lavoro, preziosissima, ai nostri committenti.

L’errore di base è che le aziende credono che con la ricerca noi andiamo a chiedere alle persone cosa vogliono, cosa gli piacerebbe avere o fare. Una sorta di lista dei desideri. Noi invece domandiamo altro, perché ci interessa indagare la vita delle persone e riuscire a tirar fuori di cosa hanno bisogno. Non è una differenza semantica, ma sostanziale: con i desideri espressi ci facciamo poco, mentre l’ascolto di una storia può significare recepire un bisogno inespresso che possa poi guidare una progettazione mirata. Centrata sulle persone, appunto.

Perché questa convinzione diffusa che ascoltare le persone sia, diciamola tutta, fuffa? Qualche idea me la sono fatta, grazie anche a commenti ascoltati o riferiti:

Abbiamo intervistato oltre sessanta persone per capire come progettare la nostra nuova sede. Alla fine non abbiamo ottenuto nessuna linea guida.

Le aziende vengono da un’esperienza negativa pregressa con la ricerca. Qualche sedicente agenzia, persino grandi nomi della consulenza, gli ha fatto sborsare una vagonata di soldi in passato per poi produrre risultati inconcludenti o fallimentari.

Succede, purtroppo. Ne paghiamo il prezzo tutti noi, che facciamo questo lavoro con professionalità. Oggi in molti si improvvisano esperti di UX, di design thinking, di qualunque cosa sia l’hype del momento. Se è importante fare ricerca con le persone, lo è altrettanto , se non di più, farla con chi ne ha davvero le competenze e l’esperienza.

Non possiamo metterci nelle mani di uno studentello di 22 anni: siamo noi che sappiamo cosa è meglio per loro.

Questa io la chiamo la sindrome dell’onniscienza del manager di turno (condita con un po’ di gerontocrazia). Se sapete tutto, come mai chiedete il feedback ai vostri clienti, dopo? Per migliorare il vostro prodotto o servizio? Benissimo, allora allarghiamo l’ascolto alle altre fasi del progetto, così invece di modificarlo dopo il lancio o rilascio magari lo rendiamo più rispondente alle esigenze del nostro target dall’inizio, risparmiando soldi e tempo. Potremmo perfino intercettare delle aree inesplorate e -pensate!- riuscire a ideare un prodotto innovativo.

Ma non siete voi gli esperti? Proponeteci delle soluzioni, basandovi su delle best practices correnti, e non perdiamo tempo.

Come consulente, io non mi sento un’esperta di soluzioni: piuttosto, ho esperienza nel metodo con cui arrivo a formularle. Ai miei clienti dico spesso che io non ho le risposte alle loro domande, ma che insieme possiamo provare a trovarle. Spiego loro come intendo farlo e poi intraprendiamo un viaggio in cui entrambi ci immergiamo nella realtà delle persone per ricavarne ispirazione (o insight) che guidino le nostre scelte progettuali.

E no, le best practices da sole non bastano: possono essere un punto di riferimento, ma non sostituiranno mai il valore della conoscenza specifica sia delle persone a cui ci rivolgiamo, sia del contesto particolare in cui interagiscono con il nostro prodotto o servizio. E poi, non dicevate di volere qualcosa di innovativo? 😉

Progettare sistemi interconnessi

Mi sono imbattuta per caso sul sito americano di Amazon e ho scoperto l’esistenza di questo nuovo gingillo chiamato Amazon Dash Button: si tratta di un dispositivo da posizionare in casa che, una volta premuto, fa partire un ordine automatico su Amazon del prodotto collegato.

Ne esistono diversi, uno per ogni prodotto convenzionato con questo servizio, che possiamo incollare nel punto più opportuno: il detersivo della lavatrice sulla lavatrice stessa, i pannolini sul fasciatoio, le lamette da barba sul pensile in bagno, e così via.

dash button
Amazon Dash Buttons

Il bottone è collegato a un’app sul nostro cellulare con cui impostiamo l’acquisto per ciascuno dei prodotti, e comunica tramite il wi-fi casalingo. Non sembra essere un sistema perfetto, a quanto leggo, ma sicuramente ci fa riflettere sulla direzione che il design sta prendendo.

Il Dash button fa parte dell’universo in continua espansione chiamato IoT, Internet of Things: si tratta di oggetti o dispositivi di qualunque tipo con la capacità di connettersi ad Internet, con i quali quindi possiamo interagire a distanza, o che possono interagire fra loro, anche senza la nostra presenza. Inquietante, vero? Un po’ sì.

Questi oggetti, e l’ecosistema che stanno occupando (o generando?) costituiscono una sfida per noi progettisti, perché come potete immaginare, il tipo e la complessità delle interazioni da considerare sono diverse. Il paradigma che mette la persona al centro non dovrebbe essere impattato, ma probabilmente abbiamo bisogno di metodi diversi e riferimenti più attenti a questo nuovo tipo di interazione fra le persone e la tecnologia nella vita quotidiana.

Proprio su questi temi si tiene quest’anno EuroIA, il Summit Europeo di Architettura dell’Informazione. Si parlerà di progettazione, di casi di studio e di riflessioni sull’impatto nelle nostre vite di questi sistemi interconnessi. La call for proposal è aperta fino al 14 febbraio: se avete idee, esempi o pensieri da condividere, anche sotto forma di presentazioni-lampo da 6 minuti, potrebbe essere la vostra occasione per parlare alla community europea. Fatevi sotto!

A Gatwick la sicurezza centrata sulle persone – Gatwick people-centered security check

[Second bilingual post! Italiano and English]

Di ritorno da un piccola vacanza a Londra, ho potuto sperimentare di persona un nuovo sistema di controlli di sicurezza all’aeroporto di Gatwick. Mi ha talmente colpito che ve lo voglio raccontare. E’ per me un ottimo esempio di progettazione centrata sulle persone.

Coming back from a quick getaway in London I had the chance to experience the new security check procedure in Gatwick airport. I was so struck by it that I decided to write about it. To me it’s a bright example of people-centered design.

Innanzi tutto, ecco uno schema che ho disegnato per illustrarvi come funziona il sistema.

First of all, here’s a sketch I drew to show you how the system works.

Gatwick new security check UCD

Alla fine della fila, un addetto vi indirizza a uno dei punti di preparazione, indicandovi il vostro numero. Siccome la parte scorrevole è solo quella posteriore, potete preparare i vostri bagagli con calma, senza che le persone alla vostra sinistra vi spingano verso il controllo. Altri addetti vi assistono su come preparare la vaschetta e ve ne forniscono altre (le vaschette arrivano in automatico sotto la vostra postazione).Una volta finito, vi basta spingere il vostro contenitore per farlo andare sul rullo e proseguire.

At the end of the line an employee sorts you in one of the designated posts by assigning you a number. You can organize your stuff into the tray with no hurry, since the roller is positioned behind the posts so the other passengers will not push you towards the detector. Two employees assist you during the preparation, even providing additional trays (they will automatically appear below your post). When you’re finished, you simply push the tray towards the roller and proceed.

Una volta superato il controllo dei detector, recuperate il vostro contenitore e vi spostate subito in una delle postazioni libere sulla destra, per rivestirvi con calma e richiudere i bagagli. Anche qui, nessuna fretta e comodità dell’operazione.

Once you’re past the detector, you pick up your tray and move to one available post on the table on the right side, where you can redress and close your luggage. Again, no hustle since you’re away from the roller and the other passengers.

Infine, la ciliegina sulla torta che mi ha persuasa a scrivere questo post. Sul percorso di uscita c’è una semplice lavagna a fogli mobili e un pennarello, per lasciare le proprie impressioni.

Perché il feedback fa parte dell’esperienza ed è un momento prezioso di contatto fra chi la progetta e chi la vive, che contribuisce a generare un rapporto soddisfacente e duraturo. E’, anche, un’opportunità enorme e a basso costo, come in questo caso, per guidare i prossimi rilasci e continuare a migliorare.

Last but not least, the cherry on top of this experience that persuaded me to write about it. On your way out you stumble upon a whiteboard where you can leave your feedback.

Because feedback is part of the experience and it’s a valuable touch point between those who design it and those who live it. It contributes to build a pleasing and durable relationship amongst them. Also, it’s a huge opportunity for the brand, even low-cost like in this case, to guide the upcoming releases and to continue improving it.

Feedback whiteboard Gatwick
Foto di Claudio Marinangeli

Questo non vuol dire che i commenti saranno tutti sensati. C’è la resistenza al cambiamento, c’è il pregiudizio, ma anche tanto altro.

This does not mean all comments will make sense. There is resistance to change, there’s prejudice, but there’s also a lot of other stuff.

Posso essere la cosplayer dell’informazione?

Era quasi inevitabile venire risucchiati nell’ultimo meme della nostra community di UX-IA: trovare una professione alternativa a quella dell’architetto per spiegare il nostro lavoro tramite altri paradigmi.  Io però provo a farlo non attingendo al mio passato professionale di agronoma (sarebbe stato naturale e anche calzante, credo) bensì pensando al mio presente di cosplayer dilettante.

Cos’è un cosplayer? E’ l’abbreviazione di costume player, quindi qualcuno che crea un costume, indossa i panni di un personaggio e ne recita il ruolo. La mia esperienza decennale con questa passione mi ha insegnato molto, e la cosa sorprendente è che trovo continuamente punti di contatto con il mio lavoro di UX designer. Come mai?

Il “vero cosplayer” (TM) si costruisce il suo costume interamente da solo, partendo dai materiali grezzi. Questo significa che all’inizio di un nuovo progetto ci si trova davanti a una lavagna bianca di possibilità e, in genere, si viene presi dal panico perché sembra un’impresa mastodontica. Il segreto è quello di scomporre la complessità in una serie di elementi più semplici, correlati fra loro, e procedere un passo alla volta.

Per poterlo fare, quindi, si inizia con una fase di raccolta delle informazioni esistenti: immagini di riferimento, tutorial, libri e, naturalmente, un po’ di benchmark (altri che abbiano già fatto lo stesso costume) per inquadrare il tutto in generale ma anche per raccogliere quanti più dettagli possibili.

Si prosegue effettuando la scelta del materiale principale, che diventa un paletto fondamentale, un requisito tecnico simile a quello di dover lavorare su una piattaforma specifica. Condizionerà buona parte del lavoro successivo e anche l’impatto economico del progetto.

A questo punto, è buona cosa cominciare a fare degli schizzi del proprio costume, che siano a bassa fedeltà ma che facciano capire i singoli elementi che vanno preparati e considerati, inclusi gli accessori che vanno comprati a parte (la parrucca, le scarpe, ecc.) e che non si riescono a realizzare da soli. In genere vanno accompagnati da un elenco esaustivo di tutti i materiali ipotizzati, di un’idea del costo, di dove reperirli. Una specie di wireframe e inventario dei contenuti, insomma.

Arriva il momento di doversi sporcare le mani (e tagliuzzarle, incollarle e bruciarle!). E’ il momento della prototipazione. Salvo rarissimi casi, non esistono modelli pronti dei costumi che vogliamo ricreare, quindi si tratta di mettersi a tavolino a ragionare su come farli. Dovranno essere su misura, partendo da carta, matita e forbici, e per quanto bravi voi siate, sbaglierete: non una volta, ma in continuazione.

C’è la transizione da 3D a 2D per tornare a ottenere il 3D (provate a disegnare al volo un modello per uno spallaccio: dai!). Ci sono tutti i limiti imposti dai materiali (resiste al calore? posso verniciarlo? con cosa lo incollo?). C’è la mancanza degli attrezzi giusti e degli spazi adeguati. C’è anche che non ne venite a capo e continuate a sbatterci la testa per giorni, e vi arrabbiate e vi buttate giù, fin quando non trovate un modo per farlo. Magari perché qualcuno accanto a voi vi dà un consiglio o vi fa notare qualcosa a cui proprio non avevate pensato.

E’ una fase che non finisce mai, se non quando mettete uno stop voi. Sceglierete il risultato minimo accettabile per quella data in cui volete indossare il costume (normalmente una fiera o un evento ad hoc). Avrete voglia di tornarci sopra e continuare a rifinirlo, o modificare quello che non funziona, anche dopo quella data. Dovrete far pace con l’idea che non sarà mai perfetto, eppure funziona.

Tutto questo lavoro viene ripagato nel giorno dell’evento, quando fate vedere al pubblico cosa siete riusciti a fare, dopo mesi di lavoro, e aspettate le loro reazioni. Raccoglierete i preziosi feedback che vi arriveranno e ne farete tesoro per la prossima volta. Vi commuoveranno i commenti gioiosi e le foto con chi condivide la vostra passione per quel personaggio. Vi confronterete con altri cosplayer per scambiarvi idee e consigli sui vostri processi. E già penserete al prossimo costume!

C’è poi un caso particolare, che è quello del cosplay di gruppo: creare un costume coordinato con altri amici, per esempio per fare personaggi di una stessa saga o ambientazione. Nel lavoro di gruppo ci sono pro e contro: avrete accesso a risorse, idee e consigli che da soli non avete, ma allo stesso tempo dovrete bilanciare i desideri di tutti, trovare soluzioni coerenti fra loro, compensare lacune, incertezze e gestire gli imprevisti. Una faticaccia che ripaga in termini di divertimento e soddisfazione finale!

E non vi ho ancora parlato di cosa significa interpretare un personaggio! Provare a calarsi letteralmente nei suoi panni, immergersi nel suo contesto, interagire con gli altri come farebbe lei, osservare le reazioni che suscita negli altri, sperimentarsi in un ruolo magari molto distante dal nostro. E’ un lavoro di introspezione e sperimentazione, che sollecita le nostre doti empatiche e ci fa salire sulla cattedra del nostro professor Keating, per “vedere il mondo da una prospettiva diversa”.

Allora, che dite, posso essere la cosplayer dell’informazione? 🙂

 

(La foto di copertina è opera di Claudio Marinangeli)

L’ascolto empatico delle persone

Una componente fondamentale del nostro lavoro risiede nella nostra capacità di ascolto delle persone. Tramite l’ascolto siamo in grado di ricavare informazioni su chi abbiamo davanti e farci guidare nella progettazione dei prodotti o servizi con cui questa persona avrà a che fare.

Ascoltare può sembrare una capacità naturale, insita nell’essere umano, e in parte è così. L’ascolto profondo, che ci permettere di conoscere, apprendere e poi agire sulla base di ciò che (r)accogliamo, è qualcosa di più. Non è sufficiente porre delle domande e ascoltare le risposte: dobbiamo riuscire a stabilire un contatto empatico con le persone, che faccia fluire le loro storie in modo naturale e autentico.

Come experience designer ci interessa infatti raccogliere storie più che informazioni: dalle storie possiamo ricavare personaggi, contesti, motivazioni e comportamenti, molto più preziosi, per noi, di una semplice statistica o di un grafico a barre.

Uno dei possibili metodi per raccogliere storie è l’intervista narrativa. Come dice il caro Raffaele -aka Rainwiz- Boiano

l’intervista narrativa è molto più di una tecnica per la raccolta delle informazioni: è una relazione.

Affinché questa relazione fra intervistatore e intervistato sia piacevole e soddisfacente per entrambi, bisogna essere equipaggiati con una serie di capacità e di attitudini e provvisti di un minimo bagaglio di esperienza.

E’ qualcosa che si può imparare? Io ritengo di sì. Occorre una certa disposizione d’animo, studiare la metodologia e metterla in pratica.

Sulla prima non posso aiutarvi granché, mentre sulle altre due, se volete, tengo un corso per la UX University: Interviste narrative: progettarle e condurle. Se siete interessati, sono aperte le pre-iscrizioni. Vi aspetto!

Chiedere o non chiedere? Il dilemma della ricerca con le persone

Post a quattro mani con Stefano Bussolon, scaturito da una chiaccherata sulla chat di Facebook (sì, noi UX designer facciamo anche queste cose qui).

Il tema era: “Dobbiamo chiedere cosa vogliono gli utenti oppure no?”, argomento che ho toccato in un mio vecchio post e su cui oggi siamo tornati a discutere.

Stefano: Insomma, non possiamo chiedere loro cosa vogliono.

Raffaella: Puoi, ma cosa ottieni? Non indicazioni di design e nemmeno individuazione di bisogni. L’esempio delle mie scarpe che postai tempo fa: mi piacciono stravaganti e le compro normali.

Stefano: E come li individui, i bisogni?

Raffaella: Ascolti loro che ti raccontano la quotidianità, la osservi, poi li ricavi tu.

Stefano: Mmmm…

Raffaella: Non sei convinto?

Stefano: Concordo sul “direttamente”, anche se . . . mettiamola così: sono sostanzialmente d’accordo su quello che scrivi, ma temo che possa essere letto come “noi samo, noi famo, noi semo i desainer”.

Raffaella: Ah ok. Invece è un problema di raccolta delle informazioni. Se chiedi loro cosa gli serve, non sono in grado di astrarre i propri bisogni e non sono obiettivi.

Stefano: Noi siamo in grado?

Raffaella: (Nel caso della storia a fumetti invece, la cosa è diversa). Noi siamo in grado di desumere dei pattern dalle storie che ci raccontano o che osserviamo: è il motivo per cui difficilmente ci sono utili le ricerche di mercato, perché spesso chiedono “cosa ti piacerebbe” e “cosa ne pensi di”.

Stefano: E invece noi?

Raffaella: Noi chiediamo “raccontami come dividi i panni prima di metterli in lavatrice”, oppure li osserviamo a casa mentre lo fanno. E, sopratutto, chiediamo sempre “perché?”. Dal perché vengono sempre fuori cose interessantissime che non saltano fuori dal “cosa”.

Stefano: Dunque chiediamo.

Raffaella: (Un capo con cui ho lavorato comprese bene il concetto e lo espresse così: “If we ask people what they want, they would say ‘a blowjob every morning’”).

Stefano: Ma il problema è che non siamo attrezzati per soddisfare il bisogno, mica che la risposta sia sbagliata.

Raffaella: Si parlava di Intranet, effettivamente no. Ma era un modo esagerato di far capire che i desideri espressi spesso non c’entrano  nulla con ciò che ci interessa indagare.

Stefano: Allora. Sono d’accordo che se io chiedo cosa vuoi, spesso la prima risposta non mi aiuta molto, però, questo non mi autorizza a non chiedere. Se non chiedo, è peggio, temo, perché sono costretto ad indovinare per altre vie. E allora, o ho strumenti molto furbi, oppure rischio di mettere tanto, ma tanto, del mio.

Raffaella: Per me il punto è che la domanda della ricerca non è la domanda che poniamo alle persone. Lo dice Steve Portigal, ma lo dicono parecchi altri. La domanda che tu hai in testa è “di cosa hanno bisogno i miei utenti?”. Ma quello che chiederai loro saranno altre cose che ti permettano di dedurlo. Non si tratta di tirare a indovinare e non si tratta di influenzare la risposta o il pattern, anzi.

Stefano: Quali altre cose?

Raffaella: Se chiedi alle persone di mostrarti o raccontarti parte della loro vita, poi puoi analizzare quei dati per ricavare i pattern e le risposte che ti servono. Non c’è del tuo e non c’è del loro, ci sono i dati obiettivi. La bravura è di essere neutri nel porre le domande, e di scavare a fondo nelle risposte, chiedendo spiegazioni e perché fino ad arrivare alle motivazioni.

Stefano: Yeah! Chiedendo, appunto. Il problema non è non hciedere (lascio il refuso di battuta perche HCIedere è carino) il problema è non accontentarsi di “voglio cavalli più veloci”.
Perché vuoi cavalli più veloci?
Per muovermi più velocemente.
Hai mai provato il treno?
Sì, ma col treno non posso andare a casa.
E hai mai pensato ad un trenino che non va su rotaia, ma sulle carrabili, come le
carrozze?

Raffaella: gli stai suggerendo una marea di cose nelle tue domande.

Stefano: Vero. Però chiedo, e mi becco anche dei no.

Raffaella: Eh ma li hai già influenzati pesantemente. Io avrei condotto l’intervista così: raccontami come ti sposti abitualmente. Dalle risposte al come ti sposti, indagherei a fondo: come mai dici che xyz? mi spieghi meglio cosa intendi per xyz?

Stefano: Infatti.

Raffaella: Potrebbe venire fuori di tutto, anche che lo spostamento attuale va benissimo così e che la cosa che in realtà gli cambierebbe la vita è una valigia con le rotelle. Per dire.

Stefano: Vero.

Raffaella: Ma se ti metti a discutere con loro già una possibile soluzione loro si dimenticheranno di raccontarti il resto.

Stefano: Dunque: non chiedere le soluzioni, ma fai emergere i bisogni. Giusto?

Raffaella: Esatto. Al limite alla fine delle interviste e delle indagini puoi vagliare possibili idee progettuali, ma più come grilletto per esplorare argomenti non toccati che altro.

Stefano: Adesso sì, sono perfettamente d’accordo.

Raffaella: 🙂

Progettare un’esperienza bella e utile, al servizio della sicurezza aerea

Recentemente si sono moltiplicati i casi di compagnie aeree che scelgono modalità alternative per comunicare ai propri clienti le indicazioni di sicurezza per il volo. Sembra quasi una gara per aggiudicarsi il premio di originalità e simpatia, e invece, secondo me, si tratta solo di service design fatto bene.

Se ve li foste persi, eccovi qualche esempio, cominciando forse dal più noto, quello di Virgin America, che ha trasmesso le istruzioni di sicurezza cantandole e ballandole.

Poi c’è Delta, che ambienta le istruzioni negli anni ’80 per richiamare un film che ha spopolato al’epoca, ovvero “L’areo più pazzo del mondo”, con tanto di cameo di Kareem Abdul Jabar che aveva partecipato al film originale.

Infine, il mio preferito, ambientato nella Terra di Mezzo: il video di Air New Zealand!

Perché dico che questo è service design fatto bene?

In primo luogo perché l’esigenza di ripensare e riprogettare questa parte del servizio aereo è nata da dei bisogni reali: i viaggiatori, specie quelli abituali, non prestano più attenzione alle indicazioni tradizionali, recitate con voce monotona e annoiata dal personale di bordo. Le compagnie, per rispettare le norme  imposte e contribuire alla sicurezza dei propri passeggeri, devono adeguare il servizio erogato a questa nuova situazione.

In seconda battuta, si tratta di migliorare un’esperienza rendendola piacevole, divertente, e magari persino memorabile (cosa particolarmente auspicabile per questo tipo di informazioni, dato che potrebbero tornare in mente più facilmente in condizioni di emergenza).

Infine, adottare questo approccio significa trasferire le sensazioni piacevoli evocate da un servizio verso il brand: è naturale che se mi sono divertita e ho apprezzato questo trattamento, la compagnia area guadagnerà punti stima. Questo a dimostrazione del concetto che progettare tenendo al centro le persone conviene sempre.

Interfacce brutte ma che funzionano

Provocazione: e se ce ne fregassimo di progettare applicazioni, siti e schermate esteticamente gradevoli? Se ci concentrassimo esclusivamente su ciò che funziona bene? Se fosse questa la vera innovazione?

Dico questo perché spesso mi sento dire dai clienti (o leggo in annunci di lavoro) che da uno UX designer si aspettano interfacce sì funzionali ma che necessariamente posseggano il cosiddetto wow factor in grado di stupire le persone per quanto sia bello e appealing ciò che gli presentiamo.

E mi chiedo: ma davvero ci interessa stupirli con effetti speciali e l’ultimo ritrovato della tecnologia? E soprattutto: siamo sicuri che interessi *loro*? Le persone?

Al di là della reazione dei primi secondi in cui ci si trova davanti l’artefatto, secondo me no, e ve lo spiego con un esempio che è sotto gli occhi di tutti.

Amazon è un tale colosso di vendita online che è diventato ormai un termine di paragone per chiunque si occupi di web, UX, marketing e molto altro.

Eppure il sito di Amazon è brutto. Sì, proprio brutto, non c’è un altro termine che lo descriva in modo più accurato. E’ brutto e basta. Esteticamente sembra quasi un prototipo HTML che usiamo per testare il design con le persone. Negli anni è migliorato, ma non tanto nell’estetica quanto nelle funzionalità. Curioso, eh?

Le pagine di Amazon a me sembrano sempre molto affollate di contenuto, piene di “rumore”, non lineari. Gli inglesi le chiamerebbero “cluttered”. Se dovessi giudicarle completamente estrapolate dal loro contesto probabilmente penserei che siano mediocri. Eppure funzionano, e alla grande. Perché? Perché rispondono completamente ai bisogni delle persone, qualche volta anticipandoli, mentre regalano un’esperienza soddisfacente e piacevole.

Per esempio:  giorni fa mi imbatto nell’ennesimo libro sul mondo UX che solletica la mia curiosità. Seguo il link fino ad Amazon.com, e poi modifico l’estensione in .it nell’URL, per arrivare al sito italiano. Voi l’avete mai fatto? Io ho cominciato per caso e mi sono entusiasmata che funzionasse! E’ un trucchetto comodissimo, veloce e pratico, e non è lì per caso: qualcuno ci ha pensato, e ha progettato il sito, anzi i siti, affinché funzionasse, affinché una persona potesse sentirsi soddisfatta di questa scorciatoia.

Proseguo aggiungendo il libro alla mia wishlist, e nel farlo mi si presenta questa schermata:

Alert su wishlist di Amazon.it

L’alert in cima è oggettivamente bruttino, concedetemelo. Però si nota molto, e quando l’ho letto io ho sorriso, tutta contenta. Amazon mi ha aiutata a ricordare qualcosa che mi ero dimenticata e ha agito per me. Se ho aggiunto nuovamente quel titolo significa che per me è importante, e lei me l’ha messo in cima alla lista. “Grazie, molto gentile!” ho pensato.

Non mi sono soffermata nemmeno un attimo a pensare che l’alert fosse brutto. Anzi, non ci ho fatto proprio caso: ero talmente presa dal mio intento (aggiungere il libro alla wishlist, verificare cosa succedeva in seguito alla mia azione, capire cosa mi stesse suggerendo il sito) che tutto il resto per me era completamente invisibile.

Dobbiamo sempre ricordarci che le persone hanno un obiettivo molto preciso quando arrivano sul nostro sito, la nostra app, la nostra intranet: devono fare qualcosa, che sia cercare informazioni, seguire una certa procedura o effettuare un’operazione. Ciò che conta per loro è che lo svolgimento dell’azione sia fluido, veloce, efficace. Non sono lì a perdere tempo o a essere intrattenuti, sono lì per  raggiungere quell’obiettivo: qualsiasi cosa non li aiuti in questo processo di fatto lo ostacola. Diventa inutile e dannoso, anche per la nostra reputazione.

Non sto dicendo che dobbiamo fare siti necessariamente brutti: dico che forse l’esigenza puramente estetica – non la parte di visual che invece impatta sulla funzionalità, attenzione- è un’esigenza nostra o dei nostri clienti, perché i fruitori finali in realtà nemmeno la vedono. E non ne tengono conto nella percezione di quel brand, che si basa invece sull’esperienza emotiva provata, e non sul giudizio estetico. Prendiamone coscienza, allora, e dedichiamogli la giusta dose di attenzione e risorse.